Non so se ho "deciso di" coltivare la terra sulla quale sono nata e cresciuta, forse perché essendo in essa da sempre, mi sembra naturale continuare questa simbiosi.
Conosco l’odore della terra, so riconoscere il “caranto” che a volte sale in superficie; so riconoscere quando le gemme iniziano a schiudersi, e so anticipare il momento in cui la vite si libera e piange un po’ come faccio io quando sono felice.
Riconosco le bellussere quando iniziano a infoltire le loro braccia con le tenere foglie, e so benissimo quando qualche lepre inizierà a fare il “nido” tra l’erba alta dei nostri vigneti.
Lavorare la Terra del Piave non sempre è poetico: ci sono i calli sulle mani, il sudore sulla fronte quando c’è caldo e tu sei col badile in mano, il male d’ossa dopo aver potato o dopo aver spollonato. Però nonostante tutto alla fine c’è sempre la gioia di aver accompagnato in un viaggio la vite e i suoi frutti.
Frutti che daranno vino, nettare prima dolce e poi strutturato.
Da quando ho ricordo, la nostra famiglia ha sempre fatto vino innanzitutto per se stessa, poi ha iniziato a commercializzare col nonno e poi con mio padre per poter trasmettere agli altri la ricchezza del suo territorio e la bontà dei suoi frutti.
Per me è stato naturale scegliere la scuola enologica prima e la facoltà di enologia dopo con la scuola diretta, un po’ meno naturale assistere a lezioni che trattavano un’enologia diversa da quella che vorrei. Non che non sia stato interessante ascoltare ed apprendere, però non è la bibbia che seguo… la mia bibbia si fonda sull’attenzione ai particolari per poter creare una naturale eccellenza da quello che il connubio terra-vite mi può dare.
Niente di più e niente di meno.
Capita che qualcuno mi dica che il vino che gentilmente gli porgo è “anonimo, senza una peculiarità, uguale agli altri”, lo considero un complimento: vuol dire che non è uguale agli altri e che vive di vita propria. Prima in vigna, poi in cantina ed infine nella bottiglia.
Che altro potremmo desiderare dai nostri -miei- figli?
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